accise e imposte di consumo,  circular economy

IRBA, accise, tassazione ambientale e armonizzazione europea

La Corte di Giustizia dell’Unione europea con l’ordinanza emessa in data 9 novembre 2021 dalla propria sezione VII per la causa C-255/21 si è espressa in materia di IRBA ( imposta indiretta regionale sulla vendita di carburanti) ribadendo la circostanza che un tributo privo di nesso diretto tra imposizione e finalità specifica è contrario al diritto unionale, all’armonizzazione del mercato unico e al quadro normativo delle accise.

La decisione in parola ha affermato, come punto di partenza della propria disamina, che, ai sensi dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2008/118:  «1.      La presente direttiva stabilisce il regime generale relativo alle accise gravanti, direttamente o indirettamente, sul consumo dei seguenti prodotti (“prodotti sottoposti ad accisa”):…a)      prodotti energetici ed elettricità di cui alla direttiva 2003/96/CE [del Consiglio, del 27 ottobre 2003, che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità (GU 2003, L 283, pag. 51)];…2.      Gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette aventi finalità specifiche, purché tali imposte siano conformi alle norme fiscali [dell’Unione] applicabili per le accise o per l’imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell’imposta; sono escluse da tali norme le disposizioni relative alle esenzioni…”.

I giudici unionali hanno confermato che per “finalità specifica” si deve intendere una finalità che non sia puramente di bilancio (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Messer France, C‑103/17). Infatti, affinché la destinazione predeterminata del gettito di un’imposta che grava sui prodotti sottoposti ad accisa consenta di considerare che tale tributo persegue una «finalità specifica» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118, è necessario che:

  1. l’imposta in questione miri, di per sé stessa, a garantire la realizzazione della finalità specifica invocata;
  2. Vi sia un nesso diretto tra l’uso del gettito derivante dall’imposta e la predetta finalità specifica.

Pertanto, in assenza di un siffatto meccanismo di destinazione predeterminata del gettito, un’imposta che grava sui prodotti sottoposti ad accisa può essere considerata perseguire una «finalità specifica» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118 soltanto qualora tale imposta sia concepita, quanto alla sua struttura, segnatamente riguardo alla materia imponibile o all’aliquota d’imposta, in modo tale da influenzare il comportamento dei contribuenti nel senso di consentire la realizzazione della finalità specifica invocata.

Ciò rappresenta un’ipotesi diversa da quella in cui rientra l’IRBA che invece sembra identificarsi in quanto indicato nel punto 30 dell’ordinanza in commento per cui: “…Ciononostante, siccome qualsiasi imposta persegue necessariamente uno scopo di bilancio, la sola circostanza che un’imposta miri a un obiettivo di bilancio non può, di per sé sola, salvo privare l’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118 di qualsivoglia sostanza, essere sufficiente a escludere che l’imposta in parola possa essere considerata dotata parimenti di una «finalità specifica» ai sensi di tale disposizione (sentenza del 5 marzo 2015, Statoil Fuel & Retail, C‑553/13, EU:C:2015:149, punto 38 e giurisprudenza ivi citata)….” Ed ancora “…l’esistenza di una «finalità specifica», ai sensi di tale disposizione, non può essere dimostrata dalla sola destinazione del gettito dell’imposta di cui trattasi al finanziamento di spese generali incombenti all’ente pubblico in un dato settore. Infatti, se così fosse, l’asserita finalità specifica non potrebbe essere distinta da una finalità puramente di bilancio…”.

La politica (tassazione) ambientale, in altre parole, può rappresentare, nelle sue applicazioni pratiche, una finalità specifica dell’imposizione delle accise o delle imposte indirette. Infatti, Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha statuito che: “…L’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), seconda frase, della direttiva 2003/96/CE del Consiglio, del 27 ottobre 2003, che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità, dev’essere interpretato nel senso che: una normativa nazionale che prevede la tassazione del carbone utilizzato per la produzione di elettricità soddisfa la condizione contenuta in tale disposizione, secondo cui l’imposta deve essere istituita «per motivi di politica ambientale», qualora esista un nesso diretto tra l’impiego del gettito della tassazione in questione e la sua finalità o qualora tale imposta, senza perseguire una finalità puramente di bilancio, sia concepita, per quanto riguarda la sua struttura, in particolare la materia imponibile o l’aliquota d’imposta, in modo tale da influenzare il comportamento dei contribuenti in un senso che consenta di garantire una migliore tutela dell’ambiente…” (CGUE Sez. V 22 giugno 2023, in causa C-833/21 – Regan, pres.; Csehi, est; Rantos, avv. gen. – Endesa Generación SAU c. Tribunal Económico Administrativo Centra).

Pertanto, è legittima la richiesta di rimborso di tale imposta come statuito dalla Corte di Cassazione Sez V ordinanza n. 23201 del 31 luglio 2023 o meglio la sentenza della Corte di Cassazione  Sez V 06 marzo 2023 n. 6687   per cui “…il contrasto tra norme statali e disciplina comunitaria non dà luogo ad invalidità o alla illegittimità delle prime, ma comporta la loro “non applicazione”, che consiste nell’impedire che la norma interna venga in rilievo per la definizione della controversia davanti al giudice nazionale L’interpretazione del diritto comunitario, con efficacia vincolante per tutte le autorità (giurisdizionali o amministrative) degli Stati membri, anche ultra partes compete alla Corte di Lussemburgo….” Poiché “…Tuttavia, ad un attento esame, dall’esegesi della disposizione dell’art. 1, comma 628, L. 30 dicembre 2020, n. 178 (Legge di Bilancio 2021), con decorrenza dal 01.01.2021, emerge che essa, pur avendo abrogato tutte le norme afferenti all’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, e, a cascata, di quella regionale, “ha fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte”. In altri termini, con la disposizione normativa in commento (ex art. 1, comma 628, cit) il legislatore ha inteso preservare e circoscrivere nel tempo la legittimità dell’IRBA, prevedendo che essa dia diritto al rimborso o l’obbligo della debenza solo per quelle obbligazioni sorte a partire dal 1 gennaio 2021. 6.4. Ciò significa che il legislatore nazionale ha inteso assicurare la debenza dell’IRBA per i rapporti pregressi, ancorchè il tributo sia stato istituito da una norma adottata in contrasto con il diritto dell’Unione Europea (direttiva 2008/118), così come interpretato dalla sentenza della Corte di giustizia, che ha consegnato la corretta interpretazione dell’art. 1, paragrafo 2, della direttiva citata, ritenendo che il suo disposto osti a una normativa nazionale che istituisce un’imposta regionale sulle vendite di benzina per autotrazione…”. In particolare, secondo gli Ermellini “…va, innanzitutto, rammentato che il dictum della Corte di Giustizia costituisce una regula iuris applicabile dal giudice nazionale in ogni stato e grado di giudizio; con la conseguenza che la sentenza della Corte di Giustizia è fonte di diritto oggettivo (Cass. 9/02/2012, n. 9217; Cass. del 2.03.2005, n. 4466; Cass. 857/95). Inoltre, va rammentato che l’interpretazione di una norma di diritto comunitario data dalla Corte di Giustizia può e deve essere applicata dal giudice anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa (CG del 15 settembre 1998, C-231/96; Cass. dell’11.09.2015, n. 17994). Su tale questione questa Corte ha ripetutamente affermato che alla natura dichiarativa delle sentenze della Corte di Giustizia discende l’efficacia retroattiva, sin dal momento dell’entrata in vigore delle norme interpretate. La retroattività significa che il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte suddetta, può essere applicato ad ogni rapporto giuridico già sorto, purchè non esaurito. (Sez. U. del 16.06.2014, n. 13676; vedi anche Cass. del 27.11.2014, n. 25268; Cass. del 11/09/2015, n. 17993, in motiv.; Cass. del 27.07.2021, n. 21419, in motiv.). 7.Ciò vale non soltanto per le pronunce rese in sede di interpretazione, ma anche per quelle in sede di apprezzamento di validità. (Cass. del 20.07.1998, n. 7105; Cass. del 7.08.1999, n. 8504). E’ stato altresì precisato che la pronuncia comunitaria, non può configurarsi come espressione di “overruling” e, come tale, inidonea ad operare retroattivamente (Cass. del 25.07.2012. n. 13087). Anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno ribadito che l’efficacia retroattiva di dette sentenze – come quella che assiste la declaratoria di illegittimità costituzionale – incontra solamente il limite dei rapporti esauriti, ipotizzabile allorchè sia maturata una causa di prescrizione o decadenza, trattandosi di istituti posti a presidio del principio della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche (circostanze queste che non ricorrono nel caso di specie) (Sez. U. del 16.06.2014, n. 13676, citata)…” ancora la medesima pronuncia indica che: “…Da ultimo, va ricordato l’importante principio affermato da questa Corte, secondo cui l’interpretazione del diritto comunitario, adottata dalla Corte di giustizia, ha efficacia “ultra partes”, sicchè alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali e sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino “ex novo” norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia “erga omnes” nell’ambito della Comunità (Cass. dell’11.12.2014, n. 22577; Cass. dell’08/02/2016, n. 2468; Cass. 03/03/2017, n. 5381). Ancora, questa Corte ha già affermato che in tema di efficacia del diritto comunitario, il fondamento della diretta applicazione e della prevalenza delle norme comunitarie su quelle statali si rinviene essenzialmente nell’art. 11 della Costituzione, laddove stabilisce che l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni (Cass. 4466/05 citata)…”. D’altronde, come chiosato da  Comm. Trib. Reg. per la Campania Sezione/Collegio 10 nella sentenza del 28 settembre 2021 n. 6895  per cui , “… l’ operazione di disapplicazione resta oramai consolidata nella giurisprudenza comunitaria: Corte giust. 4 febbraio 1988, C-157/86, Murphy, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia delle norme dell’Unione quando risolve la controversia a esso sottoposta (Corte giust. 4 dicembre 2004, C-397/01, Pfeiffer, punto 114. V., in questo senso, sentenza 15 maggio 2003, causa C-160/01, Mau, punto 34. Corte giust. 13.11.1990, causa C-106/89, Marleasing, punto 8; Corte giust., 14.7.1994, causa C-91/92, Faccini Dori, punto 26; Corte giust. 1 0.4.1984, causa C-14/83, von Colson, cit., punto 26; Corte giust. 28 giugno 2012, causa C-7/11, Caronna, p. 51). In conseguenza di tale disapplicazione, e, quindi, della non considerazione della clausola di salvezza prevista, restano assorbite le questioni di soggettività passiva di cui si discuteva precedentemente (par. 4.1 ), dovendo a monte annullarsi i tre Avvisi di pagamento per i quali è causa, con i connessi Atti di lrrogazione Sanzioni, tutti relativi ad IRBA, anno di imposta 2016, trovando – essi – la loro genesi in una normativa contraria al diritto eurounionale….”